Lavoro Dipendente

Prescrizione contributi INPS: il termine per il datore di lavoro

Con l’ordinanza n. 14548 del 30 maggio 2025, la Corte di Cassazione – Sezione Lavoro – è intervenuta su una controversia tra un datore di lavoro e l’INPS relativa al pagamento di contributi previdenziali connessi a differenze retributive riconosciute ai dipendenti in seguito a sentenze favorevoli.  In particolare si conferma che i contributi previdenziali devono essere versati in base alla retribuzione dovuta sin dall’inizio del rapporto di lavoro e che il decorso della prescrizione non può dipendere da sentenze successive  relative a controversie retributive tra lavoratori e azienda.  

Il caso

La vicenda ha origine da un avviso di addebito emesso dall’INPS, contenente richieste di pagamento per contributi, sanzioni, somme aggiuntive e interessi di mora, a seguito di pronunce giudiziali che avevano riconosciuto ai lavoratori il diritto a un superiore inquadramento contrattuale e, quindi, a retribuzioni maggiori.

Il datore di lavoro ha impugnato l’avviso, sostenendo che il diritto dell’Istituto fosse ormai prescritto. 

In primo grado, il giudice aveva rigettato l’opposizione. 

La Corte d’Appello, pur riconoscendo la prescrizione solo per una parte dei crediti, ha ritenuto valida la richiesta dell’INPS per il restante importo, affermando che la prescrizione quinquennale decorresse dalla data delle sentenze che avevano accertato il diritto alle maggiori retribuzioni. 

Questa interpretazione è stata però contestata in Cassazione dal datore di lavoro, che ha evidenziato come l’INPS non fosse parte nei giudizi tra lavoratori e azienda.

Cassazione: prescrizione decorrente dal momento della retribuzione “spettante”

La Corte di Cassazione ha accolto il primo motivo di ricorso, cassando la sentenza d’appello. Secondo i giudici di legittimità, il termine di prescrizione dei contributi previdenziali decorre non dalla pronuncia giudiziale che accerta differenze retributive, ma dal momento in cui la prestazione lavorativa è resa e la retribuzione “dovuta” al lavoratore diventa esigibile, a prescindere dal pagamento effettivo.

Infatti, richiamando la propria giurisprudenza consolidata (Cass. Sez. U. n. 5076/2015; Cass. n. 21371/2018), la Corte ha ribadito che l’obbligo contributivo è autonomo rispetto a quello retributivo e sorge con l’instaurarsi del rapporto di lavoro, sulla base della retribuzione che spetta in applicazione del contratto o della legge, anche se il datore di lavoro non la riconosce o non la corrisponde. In base al cosiddetto “principio del minimale contributivo”, i contributi devono essere calcolati sulla retribuzione spettante, e non su quella effettivamente erogata.

Il datore di lavoro, pertanto, è obbligato a versare i contributi anche se la retribuzione è oggetto di contenzioso e non ancora pagata.

 Di conseguenza, la prescrizione inizia a decorrere dal momento in cui la retribuzione diventa dovuta secondo legge e contratto, non da eventuali sentenze favorevoli ai lavoratori.

Esclusa l’efficacia interruttiva delle sentenze tra lavoratori e datore

Uno dei punti centrali della decisione riguarda l’effetto (o meglio, la mancanza di effetto) interruttivo delle sentenze intervenute nei giudizi tra dipendenti e datore di lavoro. La Corte ha chiarito che tali pronunce non possono incidere sul termine di prescrizione dei crediti contributivi, in quanto il lavoratore non è parte del rapporto obbligatorio contributivo tra datore e INPS: non è né creditore né debitore di quei contributi.

 L’azione giudiziaria del lavoratore, dunque, e neppure la sentenza che gli dà ragione, possono sospendere o interrompere la prescrizione dei contributi dovuti all’Istituto previdenziale.

L’art. 3, comma 9, della legge n. 335/1995 – richiamato dalla Corte – prevede una prescrizione quinquennale per i contributi previdenziali. Tale termine decorre dalla data in cui sorge l’obbligo contributivo e può essere interrotto solo da atti posti in essere dal creditore (INPS) o dal debitore (datore di lavoro), ma non da soggetti terzi come il lavoratore.

Alla luce di ciò, la Cassazione ha ritenuto fondate le doglianze del ricorrente, ha cassato la sentenza della Corte d’Appello e ha disposto il rinvio per un nuovo esame alla stessa Corte in diversa composizione, precisando che dovrà attenersi ai principi sopra esposti.