Cassazione: superminimo riducibile con consenso tacito
La Corte Suprema di Cassazione, Sezione Lavoro Civile, con ordinanza n. 22767 del 6 agosto 2025 (ud. 22 maggio 2025), ha deciso sul ricorso proposto da un lavoratore, già impiegato direttivo, che aveva ottenuto in primo grado un riconoscimento parziale di differenze retributive; la Corte d’Appello di Ancona, accogliendo l’appello della società, aveva invece ritenuto valida la riduzione del superminimo operata dal datore di lavoro. A.A. ha quindi proposto ricorso per Cassazione, articolato in due motivi.
Validità della riduzione del superminimo per consenso tacito
La questione centrale riguarda la possibilità di ridurre unilateralmente o tramite comportamento tacito il superminimo individuale, elemento accessorio della retribuzione. La sua rilevanza discende dal rapporto tra il principio di irriducibilità della retribuzione ex art. 2103 c.c. e la disponibilità del superminimo da parte delle parti.
È stato discusso se il silenzio o la tolleranza del lavoratore rispetto alla decurtazione possano costituire valido consenso alla riduzione retributiva, cioè quale sia il bilanciamento tra libertà contrattuale e tutela del lavoratore contro rinunce non espresse in forme garantite.
Analisi e decisione della Cassazione
La Corte ha richiamato la giurisprudenza storica (Cass. 5655/1985) che ammetteva la disponibilità del superminimo individuale, ma ha evidenziato il progressivo rafforzamento del principio di irriducibilità della retribuzione (Cass. 22041/2023; Cass. 26320/2024).
Pur precisando che la riduzione consensuale è possibile solo in sedi protette ex art. 2113 c.c., la Cassazione ha ritenuto che nel caso concreto le doglianze del ricorrente non riguardassero la natura del superminimo, bensì la possibilità di desumere il consenso dal comportamento.
La Corte d’Appello aveva concluso infatti che
- la sottoscrizione della raccomandata del 2009, e
- l'accettazione protratta della riduzione per sette anni,
integrassero una rinuncia per facta concludentia.
Il ricorso mirava, in sostanza, a ottenere una diversa valutazione dei fatti e delle prove, inammissibile in sede di legittimità. La Cassazione ha quindi confermato che non spetta al giudice di legittimità sostituire la propria valutazione a quella del giudice di merito, salvo violazione manifesta delle regole ermeneutiche o di riparto dell’onere probatorio, qui non ravvisate.
La Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso, condannando A.A. al pagamento delle spese di lite (3.500 euro per compensi, 200 euro per esborsi, oltre accessori).
È stato inoltre disposto l’obbligo per il ricorrente di versare l’ulteriore contributo unificato previsto dall’art. 13, comma 1-quater, D.P.R. 115/2002.
Le implicazioni pratiche della decisione
La decisione ribadisce che il superminimo, pur non essendo parte del minimo inderogabile, non può essere ridotto unilateralmente.
La Corte evidenzia pero anche la possibilità di valorizzare elementi indiziari e comportamenti concludenti per accertare l’accettazione di una riduzione, da parte del giudice di merito.
Sul piano pratico, la sentenza rafforza l’importanza per i datori di lavoro di formalizzare ogni accordo di modifica retributiva in sedi protette, al fine di prevenire contestazioni.
Per i lavoratori, emerge l’onere di manifestare tempestivamente il dissenso a eventuali riduzioni per evitare che il silenzio o la tolleranza siano interpretati come accettazione.
La pronuncia potrebbe incidere su futuri contenziosi in materia di rinunce tacite e patti peggiorativi della retribuzione.